Ciao Giacomo, parlaci un po’ di te e di come ti sei avvicinato alla fotografia.
Dopo esser diventato maggiorenne e conseguito il diploma, ho iniziato a viaggiare moltissimo, ed ho iniziato in quel momento senza pretesa alcuna a realizzare le prime fotografie. La fotografia era solo un mezzo per poter accumulare ricordi quasi come se temessi che tutte le esperienze che realizzavo potessero dissolversi. Fin da ragazzino utilizzavo piccole compatte o le famose usa e getta che riuscivo a reperire, si trattava di un semplice gioco, estremamente divertente, ma che nel tempo si è dimostrato un qualcosa di molto più importante e inconscio. La fotografia è diventata centrale nella mia vita nel momento in cui, dopo il mio primo viaggio in Islanda, capì che ciò che mi interessava non era documentare il mondo attraverso la nostalgia sistematica dei ricordi, ma piuttosto la possibilità di palesare in qualche modo ciò che fino ad allora sopperivo e lasciavo in disparte, la mia interiorità.
Come è nato il progetto “Preja Buia”?
Preja Buja nasce con la volontà di realizzare un’indagine aperta in alcuni luoghi storici, mistici e mitologici tra l’area di confine di Italia e Svizzera. Il significante del naturale, i territori posti al margine, la relazione effimera tra luoghi dal retaggio preistorico, sono stati rielaborati attraverso una disposizione di fascinazione del mito, del paesaggio e dell’uomo stesso. Il mio ultimo lavoro ha lo scopo di intraprendere un viaggio in bilico tra una storia oggettiva e la suggestione culturale dell’individui che la recepiscono. L’immaginario stratificato dei luoghi da me reinterpretati e fortemente alterati, come per l’appunto dal colore e prospettive distorte, ambiscono ad una dimensione ampia e sfaccettata creando interstizi di significato, sopravvivenze atte all’esplorazione cosmogonica del mito, della favola, tra l’arcaico e il contemporaneo. Il nome Preja Buia deriva da un masso erratico della provincia di Varese. Come un’icona, esso diviene la chiave di lettura di un territorio antico, messo in forte crisi dalla coesistenza duale tra una natura antropizzata e di una mutata; la fascinazione incontra dunque la corrispondenza tra le parti, crea un nuovo linguaggio dialogico per la creazione di nuovi miti, nuovi stilemi, flessibili e totalmente fluidi confluenti in un abbraccio tra l’oggettività e il pensiero. Attraverso prospettive oniriche, indagini informali e installazioni di luce sul territorio ho cercato di restituire un’ipotetica dimensione altra del paesaggio stesso in grado di slegarsi da una logica strutturale, ma che al contempo sia in grado di poterla plasmare attraverso la fusione di elementi caratteristici, ossia quegli aspetti culturali scomponibili, già assimilati ma fortemente mutabili, di ciò che costituisce oggi percepire un luogo, esperirlo, viverlo.
Da chi prendi ispirazione per i tuoi lavori?
Ad alimentare le mie visioni è stato principalmente il cinema. Mi iscrissi al triennio di Nuove Tecnologie con l’intento di studiare regia e montaggio. Il cambiamento arrivò dopo essermi innamorato delle opere di Tarkowski, Bergman, Kubrick, Antonioni, Wenders e Wong Kar Wai, ma anche le contaminazioni e le produzioni video nell’ambito musicale come Björk, Arca, Thom Yorke e Mùm. La fotografia fu il passo successivo. Alcuni tra i numerosi autori che influenzano il mio percorso sono sicuramente Todd Hido, Gregory Crewdson, Lise Sarfati, Jeff Wall, James Casebere, Paolo Ventura, Mirella Bentivoglio, Joseph Beuys e moltissimi altri. In particolare questi autori sono legati dal processo di creazione statica e meditata della scena, hanno spesso un’impronta cinematografica o in stretto contatto con il luogo in cui operano. In questi autori ho trovato le prime suggestioni che hanno aperto la strada al mio lavoro.
Come trovi le tue storie? Qual è la prima cosa che fai quando decidi di sviluppare un progetto?
Il mio approccio alla progettazione e alla ricerca non è mai stato troppo metodico o rigido. Ho spesso e volentieri trovato stimolo nelle possibilità della deriva di Guy Debord. Trovo affascinante il dominio delle variabili psicogeografiche mediante la conoscenza e il calcolo delle loro possibilità. Questo tipo di approccio può essere deleterio, ma allo stesso tempo può riservare stupore e meraviglia. Il progetto “Unreal” per esempio è frutto di lunghe giornate trascorse in macchina, spesso anche tutta la notte, in cui l’unica cosa importante è quella di lasciarsi trasportare in una costante esplorazione del territorio. Una volta raccolto il materiale nel corso degli anni è solo li che è stato possibile costruire una vera e propria “ricostruzione narrativa”. Le possibilità sono infinite in quanto trattasi di una rappresentazione fortemente soggettiva. Ciò che mi emoziona tuttora è vedere come, dopo infiniti viaggi, luoghi diversi e il mutare del mio pensiero negli anni sia possibile raggiungere, un po’ come in un film, la propria introspezione. Le mie storie quindi nascono dall’indagine approfondita del territorio in cui vivo e lavoro per poi abbracciare tutte le sue sfumature più complesse dando vita ad immagini slegate da un senso narrativo o informativo abbracciando così l’immaginario e il fantastico.
Per approfondire:
Website : www.giacomoinfantino.com
Instagram : giacomo.infantino