- Ciao Bartolomeo, parlaci un po’ di te e di come ti sei avvicinato alla fotografia.
La mia storia non è molto diversa da quella di molti fotografi, in cui la famiglia amante della fotografia, ha trasmesso la passione ai figli. Ancora oggi uso quotidianamente la 6×6 che il mio nonno materno ha lasciato sperando che qualcuno raccogliesse la sua passione. Non l’ho mai conosciuto, ma mi piace pensare che lo strumento che uso oggi sia stato per anni nelle sue mani. Come un filo rosso che unisce le nostre generazioni, la 6×6 diventa come una macchina del tempo, che ci unisce nel passato, nel presente e nel futuro, attraverso la fotografia.
- Come è nato il progetto “Il vento mi ha portato” ?
Era il 2015 quando ho raggiunto l’Islanda, ero carico di aspettative. Mi ero creato un immaginario fantastico di come volevo fotografare questa terra. Ovviamente non è andata come volevo, e così ho deciso di tornarci l’anno successivo, per approfondire cosa avevo visto, questa volta partecipando ad un workshop di fotografia narrativa con Giovanni Marrozzini. E’ stanno l’anno in cui mi sono innamorato definitivamente dell’isola e da quell’anno non ho mai smesso di pensarci, ripromettendomi che sarei tornato perché sentivo che c’era ancora qualcosa da raccontare. Quest’anno finalmente ci sono tornato, dopo quattro anni dall’ultima volta e per la prima volta in completa solitudine. Mi sono fermato quasi venti giorni in tenda girando esclusivamente i fiordi occidentali, che sono la parte che preferisco. Questa volta è stata dura, la solitudine mi è salita più di quel che potessi immaginare, ma in compenso ho provato emozioni molto profonde ed è stato probabilmente il viaggio più intenso che abbia mai fatto. Il progetto vuole un po’ raccontare il percorso che ho fatto, non tanto geograficamente quanto emotivamente. Un diario di viaggio personale dove la storia è nelle tracce umane, nei dettagli, nei piccoli oggetti. Come Pollicino, ho raccolto le briciole che mi hanno permesso di tornare a casa, sia fisicamente che mentalmente.
- Da chi prendi ispirazione per i tuoi lavori?
L’ispirazione è un fatto quotidiano e può arrivare in qualsiasi momento e da qualsiasi parte, spesso e volentieri non dal mondo della fotografia. Da anni ormai leggo molta narrativa che nel tempo mi ha aiutato a trovare delle chiavi per accedere alle fotografie che faccio che spesso per me erano e rimangono un mistero. Guardo poi molte fotografie, online, mi piace soprattutto comprare, quando posso, e collezionare libri. Pian piano mi sto costruendo una libreria personale con i fotografi e artisti che preferisco. Se dovessi fare qualche nome direi sicuramente Todd Hido, non solo per la sua produzione ma anche per l’approccio e l’idea che ha di fotografia che spesso trovo molto in sintonia con la mia. E poi Stephen Shore, William Eggleston, Alec Soth, Robert Adams, Gabrielle Russomagno, Alessandra Sanguinetti e un po’ tutta la fotografia americana, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Guido Guidi, Mario Cresci se dovessi indicare dei maestri italiani a cui guardo sempre. E poi direi Gerard Richter, sopratutto la sua produzione di sfuocati e Herni Rousseau per i paesaggi fantastici.
- Come trovi le tue storie? Qual è la prima cosa che fai quando decidi di sviluppare un progetto?
Alec Soth definisce la pratica fotografica come un’enorme caccia al tesoro e trovo questa metafora divertente ma assolutamente centrata. Per trovare le storie seguo delle sensazioni, delle intuizioni, perché vedo la fotografia come un mezzo per rispondere alle domande personali alle quali, probabilmente, forse spero, di non trovare mai risposta altrimenti perderei l’interesse nel fare fotografia. I progetti, o lavori, sono sempre delle approssimazioni alla storia, a volte più centrate, altre meno. Quindi seguo esclusivamente l’intuito e dove questo mi porta, all’inizio senza farmi troppe domande e lasciando che la cosa si evolva naturalmente. A volte finisce prima di iniziare, altre si concretizza e mi porta in giro.
Per approfondire:
WebSite : Bartolomeo Rossi
Instagram: bartolomeeo