Vincitore della trentanovesima edizione del Festival del cinema di Torino, per la sezione documentari con Rue Garibaldi, intervistiamo il regista molisano Federico Francioni.
Federico raccontaci un po’ di te e di com’è nata la tua passione per il cinema.
Questa passione non so bene quando sia nata, non la chiamerei neanche così perché non mi sono mai sentito un “appassionato” o un cinefilo, è stato qualcosa di molto naturale e urgente “abitare” certi film, certi sguardi. Il cinema per me è uno strumento di conoscenza dell’umano, la possibilità di essere in un altrove sempre diverso, un modo di stupirsi di come un linguaggio o una forma possa restituire e reinterpretare la realtà oltre ad espanderla, caricarla di senso.
Andando in questa direzione, mi sono formato essenzialmente guardando quanti più film possibili, attraversando quanti più “mondi culturali” possibili perché c’è una strabordante ricchezza nella storia del cinema, sia per quello che è conosciuto e visibile “sotto al sole”, sia per tante piccole cose ancora nascoste sotto certe pietre, che ancora mi stupiscono, e mi permettono di avvicinarmi forse a una qualche “verità” del Reale o dell’umano. Mi riferisco alla nouvelle vague, al cinema dei grandi autori degli anni ’60 e ‘70, alla commedia all’italiana, al nuovo cinema taiwanese, agli sguardi assolutamente fuori dagli schemi di autori come Otar Iosseliani, Nikos Papatakis o Eugène Green.
Se devo cercare la prima immagine di questo movimento in me, prima ancora di frequentare le sale, devo ammettere che certe vhs registrate di notte da mio zio, che le catalogava con etichette scritte a macchina, o a volte anche incollando la recensione di qualche giornale sulla custodia, sono state forse una prima via d’accesso affascinante a questo mondo. E poi ho avuto la fortuna di frequentare una sede molto particolare del Centro Sperimentale, a L’Aquila, che per un triennio è stato un laboratorio incredibile di sperimentazione e riflessione sul Cinema del Reale con Giovanni Oppedisano e Stefano Gabrini, due grandi maestri.
Federico tell us about yourself and how your passion for cinema was born.
I don’t know when this passion was born, I wouldn’t even call it passion because I’ve never felt like a “fan” or a cinephile, it was something very natural and urgent to “live” certain movies, certain looks. For me, cinema is an instrument of knowledge of the human, the possibility of living in always different places, a way of being amazed at how a language or a form can restore and reinterpret reality as well as expand it and fill it with meaning.
Moving in this direction, I essentially trained by watching as many movies as possible, crossing as many “cultural worlds” as possible because there is an overwhelming richness in the history of cinema, both for what is known and visible “under the sun”, and for many small things still hidden under certain stones, which still amaze me, and allow me to get closer to some “truth” of the Real or of the human. I refer to the nouvelle vague, the cinema of the great authors of the 60s and 70s, the Italian comedy, the new Taiwanese cinema, the absolutely unconventional looks of authors such as Otar Iosseliani, Nikos Papatakis or Eugène Green.
If I have to look for the first image of this movement in me, even before going to the cinemas, I must admit that some VHS recorded at night by my uncle, who cataloged them with typed labels, or sometimes even pasting the review of some newspaper on the case, they were perhaps a fascinating first gateway to this world. And then I was lucky enough to attend the particular Experimental Center, in L’Aquila, which for three years was an incredible laboratory of experimentation and reflection on the Cinema of the Real with Giovanni Oppedisano and Stefano Gabrini, two great masters.
Cosa racconti nel tuo ultimo film Rue Garibaldi?
Racconto la storia di Ines e Rafik, due giovanissimi fratelli siciliani, di origini tunisine, che arrivano a Parigi appena finite le scuole per iniziare un nuovo percorso, e incontrano non poche difficoltà. Quando li ho conosciuti, mi sono reso conto che il film poteva prendere tantissime strade, dal film “sociale”, ad un racconto sull’integrazione, sulla precarietà, sull’identità ma alla fine credo di essere rimasto fedele al primo sguardo di stupore che ho avuto per questi due fratelli, e ho cercato semplicemente di registrare la loro incredibile bellezza e unicità, sperando di non ingabbiarli troppo in qualche etichetta o uno schema predeterminato. È un film che attraversa molti temi ma cerca di restare fedele sempre a una certa condizione del loro essere, del loro abitare lo spazio; a uno stare al mondo al presente, pieno di dubbi e incertezze, ma anche di progettualità, di possibilità, e credo di una certa umanità irriducibile.
What do you tell in your latest movie Rue Garibaldi?
I tell the story of Ines and Rafik, two very young Sicilian brothers, of Tunisian origins, who arrive in Paris as soon as they finish school to start a new path, and they encounter many difficulties. When I met them, I realized that the movie could take many paths, from the “social” movie, to a story about integration, precariousness, identity but in the end I think I remained faithful to the first look of amazement that I had for these two brothers, and I simply tried to register their incredible beauty and uniqueness, hoping not to lock them in some predetermined pattern. It is a movie that crosses many themes but tries to remain faithful to a certain condition of their being, of their inhabiting space; to stay in the world in the present, full of doubts and uncertainties, but also of planning, of possibilities, and I believe of a certain irreducible humanity.
Qual è l’inquadratura/frame che più rappresenta la tua opera?
È un film fatto di tanti “frammenti”, e al montaggio mi sono reso conto che non erano molte le inquadrature che mantenevano una certa durata per via del ritmo interno del film, che spesso si impone anche su immagini molto forti, o molto belle.
C’è un’immagine che mi piace molto, ed è un ritratto di Ines che guarda fuori dalla finestra, indossando una maglietta con una scritta molto iconica che indossa in molte scene: “You have to live in the present moment”. È in una condizione quasi di stasi assoluta, come per recuperare le energie, mentre fuori nevica.
Non posso non citarne un’altra di un momento in cui lei e suo fratello Rafik sono uno di fronte all’altro, e si scambiano ricordi della loro infanzia, di quando lavoravano attaccando volantini per la città. Iniziando a parlare improvvisamente questi ricordi ridanno un grande slancio vitale, c’è quasi dell’entusiasmo, e mi sembra molto bello e rappresentativo del percorso del film.
Anche nella locandina sono presenti due immagini composte insieme piuttosto iconiche: da una parte c’è Rafik che guarda fuori da una finestra, in lontananza; dall’altra sua sorella Ines seduta a terra, illuminata solo da un raggio di sole e tutto il resto è al buio, questa è un’altra inquadratura che amo molto ed è stato molto bello registrarla, perché era un momento in cui non c’era voglia di parlare, e stavamo semplicemente lì, seduti a terra, cercando di approfittare di questi pochi momenti in cui il sole entrava in casa. Era come se quella luce scaldasse un po’ quello che c’era intorno, in un momento abbastanza difficile perché lei aveva perso il lavoro ed era chiusa in casa da giorni senza sapere bene come reagire, e io stesso perdevo un po’ i confini del film, che si basava su un principio molto fragile, e che non sapevo bene fino alla fine se sarebbe diventato un film oppure no.
What is the shot that represents your work?
It is a movie full of “fragments”, and while editing I realized that there were not many shots that maintained a certain duration due to the internal rhythm of the movie, which often imposes itself even on very strong, or very beautiful images.
There is an image that I really like, and it is a portrait of Ines looking out the window, wearing a T-shirt with a very iconic writing that she wears in many scenes: “You have to live in the present moment”. She is in a state of absolute stasis, as if to recover her energy, while it is snowing outside.
I cannot fail to mention another of a time when she and her brother Rafik, facing each other, exchange memories of their childhood, of when they worked by sticking flyers around the city. Starting to speak suddenly, these memories give back a great vital momentum, there is almost enthusiasm, and it seems to me very beautiful and representative of the path of the movie. Also in the poster there are two rather iconic images composed together: on one side there is Rafik looking out of a window, in the distance; on the other his sister Ines sitting on the ground, lit only by a ray of sunshine and everything else is in the dark, this is another shot that I love very much and it was very nice to record it, because it was a moment when there is no it was a desire to talk, and we were simply there, sitting on the ground, trying to take advantage of these few moments when the sun entered the house. It was as if that light warmed a little what was around, in a rather difficult moment because she had lost her job and had been locked in the house for days without knowing how to react, and I myself was losing a little the boundaries of the movie, which was based on a very fragile principle, and which I didn’t really know until the end whether it would become a movie or not.
Sono queste le inquadrature che ti sono piaciute di più mettere in scena?
Nel caso di questo film “mettere in scena” è un concetto un po’ delicato, perché è stato più un processo di “adeguamento” alla realtà. Io ho vissuto per mesi con i miei due personaggi, e a un certo punto i confini della messa in scena, dell’improvvisazione e della spontaneità si sono molto mescolati tra loro. È stato un po’ un grande esperimento. In certi casi mi sono affidato solo alla forza dei miei due protagonisti, senza cercare una “drammaturgia” necessariamente forte anche se poi andando a mettere in fila “i fatti”, gli accadimenti, viene fuori un percorso piuttosto delineato.
Are these the shots that you enjoyed filming?
In this case, “filming” is a somewhat delicate concept, because it was more of a process of “adjusting” to reality. I lived for months with my two characters, and at a certain point the boundaries of filming, improvisation and spontaneity mixed a lot. It was a bit of a great experiment. In some cases I have relied only on the strength of my two characters, without looking for a necessarily strong “dramaturgy” even if then going to line up “the facts”, the events, a rather delineated path emerges.
Federico hai sempre le idee chiare su come trasferire il tuo sguardo nella composizione dell’inquadratura o preferisci seguire l’istinto o ancora dei riferimenti?
Quando giro lavoro prevalentemente d’istinto. I riferimenti e le idee pregresse magari ci sono, ma fanno parte di altri momenti di riflessione, di un lavoro di pensiero sul film che faccio nelle pause. Soprattutto nel caso di un documentario, la maggior parte del tempo “improvviso”. Cerco sempre di fare una composizione perché penso che un’immagine composta, con una sua “armonia” interna, sia più forte ed efficace; a volte purtroppo per tanti motivi non si riesce, e si va un po’ per tentativi. Nel caso di Rue Garibaldi era chiaro che le finestre erano un motivo ricorrente, in tutte le declinazioni possibili – come finestra ma anche come soglia, come porta, come schermo di un telefonino; come “quadro nel quadro” all’interno della casa, tra le stanze; e anche il motivo della luce e dell’ombra era importante, la lotta tra questi due elementi, che visivamente è presente nel film. Questi erano un po’ i riferimenti che avevo, e coi quali cercavo di lavorare.
Ma credo che la composizione, la forma di un film debba nascere anche dal “tema”, come si dice, o, come preferisco io, dalla verità essenziale che si sta indagando, dalle forze più profonde della realtà che si vuole raccontare. E lo “sguardo” si costruisce lavorando su questo.
Federico, do you always have clear ideas on how to transfer your looks into the composition of the shot or do you prefer to follow instinct or even references?
I work mainly on instinct. The references and previous ideas may exist, but they are part of other moments of reflection, of a work of thought on the film that I make in the breaks. Especially in the case of a documentary, most of the time “sudden”. I always try to make a composition because I think that a composed image, with its own internal “harmony”, is stronger and more effective; Unfortunately, sometimes for many reasons it is not possible, and one goes a little by trial and error. In the case of Rue Garibaldi it was clear that windows were a recurring motif, in all possible declinations – as a window but also as a threshold, as a door, as a mobile phone screen; as a “picture in picture” inside the house, between the rooms; and the motif of light and shadow was also important, the struggle between these two elements, which is visually present in the movie. These were some of the references I had, and with which I was trying to work.
But I believe that the composition, the form of a movie must also arise from the “theme”, as they say, or, as I prefer, from the essential truth that is being investigated, from the deepest forces of the reality that one wants to tell. And the “looks” is built by working on this.
Qual è la prima immagine che ti viene in mente pensando al Cinema?
Sono tantissime, e farei torto a troppi capolavori se ne citassi una piuttosto che un’altra! Sicuramente se penso al Cinema, il primo nome che mi viene in mente è Andrej Tarkovskij. Nei suoi film ci sono delle immagini potentissime, miracolose, così semplici e allo stesso tempo ricche, è una fonte continua di meraviglia. Nel film Lo specchio l’immagine della madre di spalle con lo chignon, che guarda il tramonto, è di una bellezza indicibile. Poi tantissimi momenti del cinema italiano come nei film di Marco Ferreri, Michel Piccoli davanti alle immagini proiettate in Dillinger è morto, il finale del film L’eclissi di Michelangelo Antonioni è un altro momento di puro Cinema.
Ci sono una moltitudine di immagini che mi si mescolano insieme potrei andare avanti a lungo: le immagini essenziali di Jean Eustache, il lavoro sulle immagini col montaggio nei film di Jean-Luc Godard, lo sguardo sul mondo che è riuscito a dare Robert Bresson ne L’Argent.
Ecco, quando penso al Cinema mi vengono in mente subito questi grandi autori classici, perché avevano il talento di esprimere in modo cristallino cose molto complesse.
What is the first shot that comes to your mind when thinking about cinema?
There are so many, and I would wrong too many masterpieces if I mentioned one rather than another! Surely when I think of cinema, the first name that comes to mind is Andrej Tarkovskij. In his movies there are very powerful and miraculous images, so simple and at the same time rich, he is a continuous source of wonder. In the film The Mirror, the image of the mother from behind with the bun, looking at the sunset, is of unspeakable beauty. Then many moments of Italian cinema as in the films of Marco Ferreri, Michel Piccoli in front of the images projected in Dillinger is dead, the finale of the film The Eclipse by Michelangelo Antonioni is another moment of pure cinema.
There are a multitude of images that mix together I could go on and on: the essential images of Jean Eustache, the work on images with montage in Jean-Luc Godard’s films, the look at the world that Robert Bresson managed to give L’Argent.
Well, when I think of Cinema these great classical authors immediately come to mind, because they had the talent to express very complex things in a crystalline way.
Nel ringraziare Federico che è già al lavoro, insieme a Gael de Fournas, sul suo nuovo documentario in Marocco, vi consigliamo di seguire sui canali social le informazioni per poter vedere Rue Garibaldi.
In thanking Federico who is already at work, with Gael de Fournas, on his new documentary in Morocco, we recommend that you follow the information on the social channels to be able to see Rue Garibaldi.